Il Fiction Contract
Abbiamo già abbondantemente parlato delle doti che un istruttore di simulazione dovrebbe avere per condurre un efficace debriefing, la fase più delicata di una sessione di simulazione. Ammesso e non concesso che fossimo arrivati ad uno stadio avanzato della nostra crescita consapevole e responsabile di istruttori tale da appagarci per i risultati raggiunti, mi sembra importante richiamare l’attenzione del lettore su un elemento topico che è, al di là della bravura personale più o meno importante del debriefer, uno dei veri segreti per una buona riuscita di tutta la nostra sessione di simulazione; un elemento che dev’essere necessariamente propedeutico all’inizio dello scenario; sto parlando del contratto di finzione.
Abbiamo già detto del contratto di finzione nel post come creare un ambiente coinvolgente per l’apprendimento. Vorrei ora insistere, rimarcandone la sua importanza.
Il contratto o patto, si usa stringerlo tra l’istruttore e i partecipanti nel briefing, la fase che precede lo scenario e rappresenta anche il momento cruciale per la riuscita del debriefing; non può essere assolutamente “sottopesato”; se non abbiamo preparato bene il campo prima di agire, infatti, tutta la nostra bravura di debriefer può essere vanificata. Il contratto di finzione ben stipulato ci facilita la conduzione un debriefing di alta qualità cioè tale da poter dare un buon giudizio sui fatti, il nostro obiettivo, secondo il metodo che abbiamo scelto.
Infatti, il contratto di finzione permette ai partecipanti di vivere lo scenario come se fosse reale cioè con coinvolgimento, eliminando la fastidiosa sensazione di sentirsi estranei nello scenario, dei meri spettatori. Percepire uno scenario simulato come reale, o meglio, trattarlo come se lo fosse, deve prevedere necessariamente un impegno da parte del partecipante perché una finzione è e resterà sempre una finzione – per l’appunto. Ecco perché si parla di contratto come a dire di un forte impegno che il membro si prende nei confronti del gruppo.
Questo impegno, infatti, si stringe nei confronti di tutti i partecipanti al debriefing perché è a favore di tutti che si ripercuote. Se vogliamo, lo possiamo considerare come una forma di rispetto per la metodica stessa che abbiamo deciso di abbracciare, le regole del gioco che abbiamo accettato di giocare, ma non solo. E’ infatti, un attestato di rispetto per il gruppo, per non mettere lacci alla serena ricerca di miglioramento che il team deve svolgere; significa far sì che la discussione possa essere intrapresa seriamente, farla scorrere, dando per scontato che quello che è successo nello scenario lo equipariamo, con lealtà, alla realtà.
Quella motivazione di sapersi mettere in gioco, che spesso ripetiamo, è parte naturale del contratto di finzione e ne è il motore.
Io credo che siamo tutti intelligenti e abbiamo studiato sodo per fare il mestiere che abbiamo scelto; rispetto me stesso ma rispetto anche i miei colleghi; mi impegno dunque a far sì che il team, di cui sono parte integrante, possa migliorarsi – insieme a me.
Stringo quindi un patto con tutti in base al quale considero lo scenario simulato corrispondente alla realtà e rendo quindi possibile una proficua discussione ex post, comportandomi nello scenario come farei nella realtà. Diversamente, rinunciando al patto o non impegnandomi a sufficienza, scelgo la strada dell’autoesclusione dal gruppo, quasi a dire: “non vi riconosco, non me la sento di mettermi in gioco, non voglio aprirmi, non voglio aiutare nessuno, compreso me stesso”.
Se posso fare appello alla mia esperienza, senza che mi si tacci di poca serietà scientifica vista la mancanza di dati da poter sciolinare, il patto viene ‘fisiologicamente’ rigettato nel debriefing da circa il dieci percento dei partecipanti quasi sempre; o meglio – questi provano a farlo.
Infatti, la cosa interessante che spesso noto, è che i partecipanti ‘autoesclusi’ si ‘autoreintegrano’ nella discussione di gruppo, difatti contraddicendosi. Non so dirvi se questo sia percepito o meno dagli altri partecipanti e che effetti abbia su di loro (sarebbe molto interessante studiarlo), so dirvi però che a me, debriefer, fa un bel effetto perché recupero un partecipante con tutte le sue analisi e soluzioni.
Credo, pensandola in maniera olistico-intuitiva, che questo partecipante sia una persona spesso molto sensibile, altre volte severo con se stesso; altre, troppo fiacco e poco centrato per poter reggere sulle spalle il peso dell’errore di cui si è accorto. E’ probabile, quindi che abbia bisogno di più coraggio, di normalizzazione, del siamo tutti nella stessa barca, per sciogliersi e rientrare; quindi di tempo.
Durante il debriefing quindi, puoi vedere che il partecipante riottoso cui hai svelato serenamente e chiaramente la tua sana curiosità sui fatti accaduti, ti alza un muro e rompe il patto di finzione: “nella realtà non l’avrei mai fatto”. Poi una volta “scaricatosi”, dopo poco, interviene con idee e suggerimenti nell’analisi dell’accaduto e può succedere che ti regali anche un suo personale frame. E il gioco è fatto!
Bisogna offendersi difronte al partecipante che ha rotto il patto di finzione? Che domanda, eh?! Certo, se siamo onesti debriefer con le nostre facoltà di istruttore incentrate sul partecipante, nascerà una delusione inevitabile in noi: “io faccio tanto per te e tu come mi ripaghi?”
La dobbiamo nascondere la delusione? E perché mai? Il debriefing è una semplice discussione tra pari e come tale andrà condotta. Sicuramente non mi conviene alzare un polverone per non bloccare la discussione ma neanche far finta di niente. Se sono onesto rimarcherò il fatto che mi dispiace molto non poter parlare con quel partecipante e che spero di farlo la prossima volta. Così un sano atteggiamento sincero, quindi, mi consentirà di porre buone basi per il ritorno del partecipante.
Aggiungo un’ultima cosa molto importante: l’ambiente. L’ambiente in cui si stipula il patto deve essere idoneo. Abbiamo anche qui già parlato del safe environment su cui non aggiungo altro se non che un istruttore responsabile debba saperlo creare. Come? Semplicemente perché crede in quello che fa, è centrato, è focalizzato sul partecipante e non su se stesso, prova piacere nel poter alzare il livello di qualità del nostro lavoro ed è capace di lasciare da parte pregiudizi e sovrastrutture che lo allontanano dal suo vero obiettivo: la ricerca della verità.